Villa di Poggioreale
Storia e architettura
La Villa di Poggioreale aveva ingressi in via del Campo, via Santa Maia del Pianto, via nuova e via vecchia Poggioreale.
L’area su cui sorge l’edificio, fino all’intervento di Ferrante I d’Aragona, era una zona che, pur godendo di un’ottima vista sul golfo, era occupata da un terreno in gran parte paludoso. Così, in seguito a questa bonifica, Alfonso II d’Aragona decise di costruirvi un palazzo a cui diede il nome di “poggio reale”. I lavori, che cominciarono nel 1487, riguardarono anche alcuni terreni appartenenti a Nicola e Giovan Battista Brancaccio espropriati con la forza, mentre ad altri venne tolto l’uso dell’acqua.
Il progetto venne affidato all’architetto Giuliano da Majano che seguì la realizzazione della villa fina al 1490, anno della sua morte. A lui si susseguirono altri personaggi meno noti che portarono a termine la villa, tra cui Francesco di Giorgio Martini e Fra’ Giocondo da Verona. Il palazzo presentava una pianta quadrata che si innalzava su due piani, ai cui vertici vennero poste delle torri che si collegavano al corpo di fabbrica con un loggiato. Al loro interno vi erano tre stanze per piano, comunicanti attraverso una scala a chiocciola. Da qui si poteva raggiungere all’atrio dove la nobiltà del tempo si dava appuntamento per ricevimenti e feste, nel quale erano inserite anche delle fontane. Le pareti erano ricche di dipinti e, sparsi per le varie stanze, anche dei busti e dei bassorilievi, tutti rappresentanti le imprese o la figura di Alfonso II.
All’esterno, vi era un’ampia zona verde che, oltre ad un’ampia zona boschiva adibita alla caccia, aveva degli uliveti e un giardino molto curato, il cui pendio arrivava sino al mare. Nel 1494, quando Alfonso fu costretto a scappare in Sicilia, cominciò la prima fase di degrado del palazzo, anche a causa delle razzie dei francesi. In seguito, una volta rientrati gli spagnoli, Ferdinando II, che aveva bisogno di denaro per far fronte ad alcuni debiti di famiglia, decise di vendere alcune parti della villa, decretandone ancora di più l’abbandono da parte della casa reale. In seguito, nel 1528, i Francesi promossero un’ulteriore offensiva nei confronti della città e l’esercito transalpino riuscì ad intrufolarsi nella vicina proprietà del duca di Montalto e, nel tentativo di danneggiare gli spagnoli, distrusse l’acquedotto della bolla che riforniva anche la villa. La sua azione, però, fu deleteria e gli stessi soldati francesi si ammalarono di peste.
Nonostante queste vicissitudini storiche, la residenza continuò ad essere frequentata fino al XVI secolo, finchè nel 1582, anche a causa dei danni di alcuni terremoti, si dovette procedere a realizzare alcuni lavori di restauro e consolidamento. In seguito, nel 1604, il vicerè Juan Alonso Pimentel de Herrera decise di abbellire la strada che portava alla villa, realizzando delle fontane e piantando degli alberi ai lati della via. Purtroppo, dopo la peste del 1656, per il palazzo cominciò una nuova era di abbandono e rovina, visto che le grotte circostanti furono utilizzate per seppellire i morti in seguito all’epidemia. L’edificio si trascinò in completo degrado fino al 1762, quando re Carlo affidò all’architetto Ferdinando Fuga l’incarico di costruire in quel luogo un cimitero. Il progetto andò per le lunghe e, solo nel tra il 1814 e il 1837, Giuseppe Maresca, Luigi Malusci e Ciro Cuciniello edificarono la Chiesa Madre e organizzarono i nuovi viali. Nel 1832, invece, Stefano Gasse, realizzò l’ingresso al campo santo.
L’area su cui sorge l’edificio, fino all’intervento di Ferrante I d’Aragona, era una zona che, pur godendo di un’ottima vista sul golfo, era occupata da un terreno in gran parte paludoso. Così, in seguito a questa bonifica, Alfonso II d’Aragona decise di costruirvi un palazzo a cui diede il nome di “poggio reale”. I lavori, che cominciarono nel 1487, riguardarono anche alcuni terreni appartenenti a Nicola e Giovan Battista Brancaccio espropriati con la forza, mentre ad altri venne tolto l’uso dell’acqua.
Il progetto venne affidato all’architetto Giuliano da Majano che seguì la realizzazione della villa fina al 1490, anno della sua morte. A lui si susseguirono altri personaggi meno noti che portarono a termine la villa, tra cui Francesco di Giorgio Martini e Fra’ Giocondo da Verona. Il palazzo presentava una pianta quadrata che si innalzava su due piani, ai cui vertici vennero poste delle torri che si collegavano al corpo di fabbrica con un loggiato. Al loro interno vi erano tre stanze per piano, comunicanti attraverso una scala a chiocciola. Da qui si poteva raggiungere all’atrio dove la nobiltà del tempo si dava appuntamento per ricevimenti e feste, nel quale erano inserite anche delle fontane. Le pareti erano ricche di dipinti e, sparsi per le varie stanze, anche dei busti e dei bassorilievi, tutti rappresentanti le imprese o la figura di Alfonso II.
All’esterno, vi era un’ampia zona verde che, oltre ad un’ampia zona boschiva adibita alla caccia, aveva degli uliveti e un giardino molto curato, il cui pendio arrivava sino al mare. Nel 1494, quando Alfonso fu costretto a scappare in Sicilia, cominciò la prima fase di degrado del palazzo, anche a causa delle razzie dei francesi. In seguito, una volta rientrati gli spagnoli, Ferdinando II, che aveva bisogno di denaro per far fronte ad alcuni debiti di famiglia, decise di vendere alcune parti della villa, decretandone ancora di più l’abbandono da parte della casa reale. In seguito, nel 1528, i Francesi promossero un’ulteriore offensiva nei confronti della città e l’esercito transalpino riuscì ad intrufolarsi nella vicina proprietà del duca di Montalto e, nel tentativo di danneggiare gli spagnoli, distrusse l’acquedotto della bolla che riforniva anche la villa. La sua azione, però, fu deleteria e gli stessi soldati francesi si ammalarono di peste.
Nonostante queste vicissitudini storiche, la residenza continuò ad essere frequentata fino al XVI secolo, finchè nel 1582, anche a causa dei danni di alcuni terremoti, si dovette procedere a realizzare alcuni lavori di restauro e consolidamento. In seguito, nel 1604, il vicerè Juan Alonso Pimentel de Herrera decise di abbellire la strada che portava alla villa, realizzando delle fontane e piantando degli alberi ai lati della via. Purtroppo, dopo la peste del 1656, per il palazzo cominciò una nuova era di abbandono e rovina, visto che le grotte circostanti furono utilizzate per seppellire i morti in seguito all’epidemia. L’edificio si trascinò in completo degrado fino al 1762, quando re Carlo affidò all’architetto Ferdinando Fuga l’incarico di costruire in quel luogo un cimitero. Il progetto andò per le lunghe e, solo nel tra il 1814 e il 1837, Giuseppe Maresca, Luigi Malusci e Ciro Cuciniello edificarono la Chiesa Madre e organizzarono i nuovi viali. Nel 1832, invece, Stefano Gasse, realizzò l’ingresso al campo santo.
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