Palazzo Reale
Storia e architettura
Il Palazzo Reale di Napoli si trova in piazza del Plebiscito.
Nel 1599, l’allora vicerè Fernandez Ruiz de Castro, conte di Lemos, manifestò l’intenzione di costruire una residenza reale in città, al fine di realizzare una degna dimora per ospitare il sovrano Filippo III e la regina, che erano attesi in un imminente visita ufficiale a Napoli, evento che, però, non si verificò mai. L’edificio, così, divenne sede dei vicerè spagnoli, nonostante don Pedro de Toledo (vicerè cinquant’anni prima) ne avesse realizzata già una, poi di quelli austriaci e, in seguito, dei regnanti di casa Borbone. Dopo l’unità d’Italia, il palazzo venne utilizzato come residenza dai Savoia.
La costruzione dell’edificio venne affidata a Domenico Fontana, Ingegnere Maggiore del Regno e architetto tra i più prestigiosi del suo tempo. Questi era molto famoso per aver avviato un grande lavoro di ristrutturazione urbanistica di Roma per conto di papa Sisto V, ma, dopo la morte di quest’ultimo, era caduto velocemente in disgrazia e, quindi, accettò con grande entusiasmo il nuovo incarico, tanto che lasciò la sua firma su due basi delle colonne poste all’ingresso; “Dominicus Fontana Patricius Momanus Eques Auratus Comes Palatinus Inventor”.
Si scelse di edificare la nuova opera sul terreno occupato dai giardini del palazzo vicereale citato in precedenza, zona molto importante dal punto di vista strategico, vista la sua vicinanza al mare e al Maschio Angioino, comode vie di fuga in caso di emergenze, e dal punto di vista urbanistico, visto che il piano regolatore del tempo prevedeva un’espansione della città proprio verso queste zone (Pizzofalcone e Chiaia) che, il nuovo edificio, ne avrebbe sicuramente confermato e aumentato il valore. Inoltre, il vasto spiazzo che si apriva di fronte all’ingresso principale, poteva essere utilizzato per accogliere i sudditi nelle feste e nelle occasioni importanti.
Probabilmente, la prima pietra fu posta già nel 1600, ma, al grande fermento iniziale sotto la direzione del conte di Lemos e del suo successore Francisco de Castro (1601-1603), seguì una lunga fase di rallentamento nel momento in cui la città era guidata da Juan Alfonso Pimentel d’Errera (1603 – 1610), forse per mancanza di fondi, ma, più probabilmente, perché quest’ultimo non aveva grande interesse nel portare avanti l’opera iniziata da una famiglia di vicerè di cui lui non faceva parte. In seguito, i lavori ripresero di buona lena quando a Napoli si insediò un nuovo membro dei conti di Lemos, Pedro Fernandez de Castro.
L’architetto Domenico Fontana, però, morì nel 1607 e non riuscì mai a vedere la sua opera del tutto compiuta, cosa che avvenne dopo il 1843 con Gaetano Genovese. Nel corso dei secoli lavorano al progetto i più importanti architetti attivi nel regno come Giulio Cesare Fontana, Bartolomeo Picchiatti, Onofrio Gisolfi, Francesco Antonio Picchiatti, Domenico Antonio Vaccaro, Ferdinando Sanfelice, Luigi Vanvitelli, Ferdinando Fuga e Antonio Niccolini. Comunque, nonostante i secoli e le nuove esigenze che via via si presentavano, tutti rimasero in linea di massima fedeli al progetto iniziale del Fontana.
Nel 1616, la parte esterna era completa, così come parte del cortile e alcune stanze, tanto che alcune di queste erano state già affrescate da Battistello Caracciolo, Giovanni Balducci e Belisario Corenzio. Nel 1644, Francesco Antonio Picchiatti preparò il bando di concorso per le decorazioni della regale Cappella, da lui costruita. Due anni più tardi, anche queste erano finite grazie agli interventi di Jusepe de Ribera, che realizzò la pala sull’altare maggiore raffigurante la Santissima Concezione, Giulio e Andrea Lazzari, Charles Mellin e Giovanni Lanfranco, e si potè procedere con la consacrazione della cappella.
Nel 1651, il vicerè Iñigo Velez y Tassis de Guevara, conte di Oñate, fece costruire da Francesco Antonio Picchiatti l’attuale scalone monumentale, che andava a sostituire il precedente più modesto. La nuova costruzione fu ulteriormente valorizzata quando, nel 1843, Gaetano Genovese optò per l’abbattimento dell’antico palazzo vicereale, donando luce e visibilità all’elemento architettonico che fu anche arricchito con marmi colorati, statue e rilievi in marmo eseguiti dai migliori maestri napoletani.
Tra il 1658 e il 1659 Cosimo Fanzago realizzò la statua dell’Immacolata per l’altare maggiore della cappella (oggi conservata al Seminario Arcivescovile di Napoli), mentre Giovan Battista Magno, detto Modanino, si occupò dell’indoratura degli stucchi.
Tra il 1666 e il 1671, venne ultimata la costruzione del belvedere, nel quale furono realizzate decorazioni, oggi andate perdute, da Luigi Garzi, Andrea Matino e Giacomo Massaro. Nello stesso periodo, più precisamente nel 1668, nel giardino, all’angolo della discesa verso il mare, fu collocata la statua del Gigante, oggi esposta al Museo Archeologico di Napoli. Nel 1707, è ancora la cappella reale a subire dei cambiamenti. Questa volta si tratta del soffitto, rifatto da Giacomo del Po, di cui rimangono tracce di affreschi tra le finestre.
Nel 1734, quando il Regno di Napoli divenne autonomo, Palazzo Reale diventò finalmente la residenza del re. Carlo di Borbone, per meglio celebrare il suo matrimonio con Maria Amalia di Sassonia, nel 1738 commissionò a Francesco De Mura le decorazioni della sala Diplomatica, nella quale l’artista dipinse sul soffitto l’Allegoria delle virtù degli sposi. Domenico Antonio Vaccaro si occupò della camera nuziale dove realizzò l’Allegoria dell’Amore e l’Allegoria della maestà del Re; altri lavori vennero eseguiti da Francesco Solimena, Nicola Maria Rossi e Leonardo Coccorante, mentre il Sovrano fece anche costruire l’appartamento del Maggiordomo Maggiore da Ferdinando Sanfelice. Inoltre, nel 1737, venne costruito il teatro San Carlo e fondata la Fabbrica di Porcellana.
Successivamente, tra il 1742 e il 1743, venne ampliato il Belvedere con l’aggiunta del giardino pensile, mentre nel 1751 venne fondata la Stamperia Reale. Tre anni più tari, Luigi Vanvitelli si preoccupò di effettuare alcuni lavori di consolidamento della facciata.
Inoltre, tra il 1756 e il 1758, venne costruito anche il corpo di fabbrica orientale, forse da Ferdinando Fuga, denominato Braccio Nuovo, che occupò una vasta area dei giardini. Originariamente utilizzato per delle feste, in tempi più recenti è stato destinato ad ospitare la Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III. Negli stessi anni, si andava delineando anche la costruzione della parte verso il mare che, però, rimase incompleta (vennero realizzate solo le prime sei campate di balconi).
I lavori proseguirono con Ferdinando IV che affidò i lavori a Ferdinando Fuga, il quale, in occasione delle nozze tra il sovrano e Maria Carolina d’Austria nel 1768, trasformò la Gran Sala della Reggia spagnola in un teatro. Questa sala, purtroppo, si trova nella parte dell’edificio colpita durante i bombardamenti del 1943 e di essa si sono salvati, oltre alla struttura d’insieme, le tre pareti con il palco, e le nicchie con le statue di cartapesta raffiguranti le muse e gli dei, opera di Angelo Viva. Altre decorazioni vennero realizzate sotto la supervisione di Ferdinando Fuga tra il 1775 e il 1778.
In seguito, tra il 1806 e il 1815, durante il periodo francese, gli interni vennero decorati con arredi in stile napoleonico provenienti dalla Francia, ma anche da artigiani locali, mentre nella Reale Cappella venne trasferito l’altare maggiore della chiesa di Santa Teresa degli Scalzi, realizzato nel 1674 da Dionisio Lazzari. Nello stesso periodo, Antonio Niccolini realizzò una nuova facciata per il Teatro San Carlo.
Nel 1818, dopo il ritorno dei Borboni avvenuto tre anni prima, vennero decorate la terza anticamera e la sala del Trono, mentre nel 1832 fu sistemata la fontana del cortile e demolita la Cavallerizza seicentesca per dare spazio a quella nuova in stile neoclassico.
Nel 1837, un incendio interessò l’ala est del palazzo, evento che rese necessaria una restaurazione, affidata all’architetto Gaetano Genovese, e lo spostamento dei sovrani e della corte al secondo piano. I lavori, che durarono dal 1838 al 1858, portarono alla demolizione del vecchio Palazzo Vicereale e della Fabbrica di Porcellana, mentre venne rivisto l’allestimento del giardino e l’appartamento delle Feste venne arricchito con decorazioni in stucco di Gennaro Aveta e tempere di Gennaro Maldarelli, Giuseppe Cammarano, Filippo Marsigli, Vincenzo de Angelis, Salvatore Giusti e Camillo Guerra. Inoltre, gli appartamenti privati vennero spostati al secondo piano e il piano nobile che affaccia sul cortile d’onore diventò appartamento di Etichetta. Infine, vennero realizzate le decorazioni in marmo della Scala dei Forestieri e di altre sale.
Con l’Unità d’Italia, come detto, il palazzo diventa residenza napoletana di Casa Savoia e, già nel 1861, nel giardino a nord compare la statua raffigurante l’Italia. Più tardi, nel 1888, re Umberto I fece realizzare le otto statue poste nelle nicchie della facciata.
Nel 1919, Palazzo Reale diventa proprietà dello Stato che lo apre al pubblico e, tra il 1922 e il 1923, vi trasferisce la Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III al primo e al secondo piano dell’Ala delle Feste. La Seconda Guerra Mondiale causa alcuni danneggiamenti, poi sistemati negli anni successivi, e anche la caduta della monarchia che determina la dispersione di alcuni arredi. Dal 1995 si presenta nella forma museografica di appartamento storico e di Biblioteca Nazionale.
Nel 1599, l’allora vicerè Fernandez Ruiz de Castro, conte di Lemos, manifestò l’intenzione di costruire una residenza reale in città, al fine di realizzare una degna dimora per ospitare il sovrano Filippo III e la regina, che erano attesi in un imminente visita ufficiale a Napoli, evento che, però, non si verificò mai. L’edificio, così, divenne sede dei vicerè spagnoli, nonostante don Pedro de Toledo (vicerè cinquant’anni prima) ne avesse realizzata già una, poi di quelli austriaci e, in seguito, dei regnanti di casa Borbone. Dopo l’unità d’Italia, il palazzo venne utilizzato come residenza dai Savoia.
La costruzione dell’edificio venne affidata a Domenico Fontana, Ingegnere Maggiore del Regno e architetto tra i più prestigiosi del suo tempo. Questi era molto famoso per aver avviato un grande lavoro di ristrutturazione urbanistica di Roma per conto di papa Sisto V, ma, dopo la morte di quest’ultimo, era caduto velocemente in disgrazia e, quindi, accettò con grande entusiasmo il nuovo incarico, tanto che lasciò la sua firma su due basi delle colonne poste all’ingresso; “Dominicus Fontana Patricius Momanus Eques Auratus Comes Palatinus Inventor”.
Si scelse di edificare la nuova opera sul terreno occupato dai giardini del palazzo vicereale citato in precedenza, zona molto importante dal punto di vista strategico, vista la sua vicinanza al mare e al Maschio Angioino, comode vie di fuga in caso di emergenze, e dal punto di vista urbanistico, visto che il piano regolatore del tempo prevedeva un’espansione della città proprio verso queste zone (Pizzofalcone e Chiaia) che, il nuovo edificio, ne avrebbe sicuramente confermato e aumentato il valore. Inoltre, il vasto spiazzo che si apriva di fronte all’ingresso principale, poteva essere utilizzato per accogliere i sudditi nelle feste e nelle occasioni importanti.
Probabilmente, la prima pietra fu posta già nel 1600, ma, al grande fermento iniziale sotto la direzione del conte di Lemos e del suo successore Francisco de Castro (1601-1603), seguì una lunga fase di rallentamento nel momento in cui la città era guidata da Juan Alfonso Pimentel d’Errera (1603 – 1610), forse per mancanza di fondi, ma, più probabilmente, perché quest’ultimo non aveva grande interesse nel portare avanti l’opera iniziata da una famiglia di vicerè di cui lui non faceva parte. In seguito, i lavori ripresero di buona lena quando a Napoli si insediò un nuovo membro dei conti di Lemos, Pedro Fernandez de Castro.
L’architetto Domenico Fontana, però, morì nel 1607 e non riuscì mai a vedere la sua opera del tutto compiuta, cosa che avvenne dopo il 1843 con Gaetano Genovese. Nel corso dei secoli lavorano al progetto i più importanti architetti attivi nel regno come Giulio Cesare Fontana, Bartolomeo Picchiatti, Onofrio Gisolfi, Francesco Antonio Picchiatti, Domenico Antonio Vaccaro, Ferdinando Sanfelice, Luigi Vanvitelli, Ferdinando Fuga e Antonio Niccolini. Comunque, nonostante i secoli e le nuove esigenze che via via si presentavano, tutti rimasero in linea di massima fedeli al progetto iniziale del Fontana.
Nel 1616, la parte esterna era completa, così come parte del cortile e alcune stanze, tanto che alcune di queste erano state già affrescate da Battistello Caracciolo, Giovanni Balducci e Belisario Corenzio. Nel 1644, Francesco Antonio Picchiatti preparò il bando di concorso per le decorazioni della regale Cappella, da lui costruita. Due anni più tardi, anche queste erano finite grazie agli interventi di Jusepe de Ribera, che realizzò la pala sull’altare maggiore raffigurante la Santissima Concezione, Giulio e Andrea Lazzari, Charles Mellin e Giovanni Lanfranco, e si potè procedere con la consacrazione della cappella.
Nel 1651, il vicerè Iñigo Velez y Tassis de Guevara, conte di Oñate, fece costruire da Francesco Antonio Picchiatti l’attuale scalone monumentale, che andava a sostituire il precedente più modesto. La nuova costruzione fu ulteriormente valorizzata quando, nel 1843, Gaetano Genovese optò per l’abbattimento dell’antico palazzo vicereale, donando luce e visibilità all’elemento architettonico che fu anche arricchito con marmi colorati, statue e rilievi in marmo eseguiti dai migliori maestri napoletani.
Tra il 1658 e il 1659 Cosimo Fanzago realizzò la statua dell’Immacolata per l’altare maggiore della cappella (oggi conservata al Seminario Arcivescovile di Napoli), mentre Giovan Battista Magno, detto Modanino, si occupò dell’indoratura degli stucchi.
Tra il 1666 e il 1671, venne ultimata la costruzione del belvedere, nel quale furono realizzate decorazioni, oggi andate perdute, da Luigi Garzi, Andrea Matino e Giacomo Massaro. Nello stesso periodo, più precisamente nel 1668, nel giardino, all’angolo della discesa verso il mare, fu collocata la statua del Gigante, oggi esposta al Museo Archeologico di Napoli. Nel 1707, è ancora la cappella reale a subire dei cambiamenti. Questa volta si tratta del soffitto, rifatto da Giacomo del Po, di cui rimangono tracce di affreschi tra le finestre.
Nel 1734, quando il Regno di Napoli divenne autonomo, Palazzo Reale diventò finalmente la residenza del re. Carlo di Borbone, per meglio celebrare il suo matrimonio con Maria Amalia di Sassonia, nel 1738 commissionò a Francesco De Mura le decorazioni della sala Diplomatica, nella quale l’artista dipinse sul soffitto l’Allegoria delle virtù degli sposi. Domenico Antonio Vaccaro si occupò della camera nuziale dove realizzò l’Allegoria dell’Amore e l’Allegoria della maestà del Re; altri lavori vennero eseguiti da Francesco Solimena, Nicola Maria Rossi e Leonardo Coccorante, mentre il Sovrano fece anche costruire l’appartamento del Maggiordomo Maggiore da Ferdinando Sanfelice. Inoltre, nel 1737, venne costruito il teatro San Carlo e fondata la Fabbrica di Porcellana.
Successivamente, tra il 1742 e il 1743, venne ampliato il Belvedere con l’aggiunta del giardino pensile, mentre nel 1751 venne fondata la Stamperia Reale. Tre anni più tari, Luigi Vanvitelli si preoccupò di effettuare alcuni lavori di consolidamento della facciata.
Inoltre, tra il 1756 e il 1758, venne costruito anche il corpo di fabbrica orientale, forse da Ferdinando Fuga, denominato Braccio Nuovo, che occupò una vasta area dei giardini. Originariamente utilizzato per delle feste, in tempi più recenti è stato destinato ad ospitare la Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III. Negli stessi anni, si andava delineando anche la costruzione della parte verso il mare che, però, rimase incompleta (vennero realizzate solo le prime sei campate di balconi).
I lavori proseguirono con Ferdinando IV che affidò i lavori a Ferdinando Fuga, il quale, in occasione delle nozze tra il sovrano e Maria Carolina d’Austria nel 1768, trasformò la Gran Sala della Reggia spagnola in un teatro. Questa sala, purtroppo, si trova nella parte dell’edificio colpita durante i bombardamenti del 1943 e di essa si sono salvati, oltre alla struttura d’insieme, le tre pareti con il palco, e le nicchie con le statue di cartapesta raffiguranti le muse e gli dei, opera di Angelo Viva. Altre decorazioni vennero realizzate sotto la supervisione di Ferdinando Fuga tra il 1775 e il 1778.
In seguito, tra il 1806 e il 1815, durante il periodo francese, gli interni vennero decorati con arredi in stile napoleonico provenienti dalla Francia, ma anche da artigiani locali, mentre nella Reale Cappella venne trasferito l’altare maggiore della chiesa di Santa Teresa degli Scalzi, realizzato nel 1674 da Dionisio Lazzari. Nello stesso periodo, Antonio Niccolini realizzò una nuova facciata per il Teatro San Carlo.
Nel 1818, dopo il ritorno dei Borboni avvenuto tre anni prima, vennero decorate la terza anticamera e la sala del Trono, mentre nel 1832 fu sistemata la fontana del cortile e demolita la Cavallerizza seicentesca per dare spazio a quella nuova in stile neoclassico.
Nel 1837, un incendio interessò l’ala est del palazzo, evento che rese necessaria una restaurazione, affidata all’architetto Gaetano Genovese, e lo spostamento dei sovrani e della corte al secondo piano. I lavori, che durarono dal 1838 al 1858, portarono alla demolizione del vecchio Palazzo Vicereale e della Fabbrica di Porcellana, mentre venne rivisto l’allestimento del giardino e l’appartamento delle Feste venne arricchito con decorazioni in stucco di Gennaro Aveta e tempere di Gennaro Maldarelli, Giuseppe Cammarano, Filippo Marsigli, Vincenzo de Angelis, Salvatore Giusti e Camillo Guerra. Inoltre, gli appartamenti privati vennero spostati al secondo piano e il piano nobile che affaccia sul cortile d’onore diventò appartamento di Etichetta. Infine, vennero realizzate le decorazioni in marmo della Scala dei Forestieri e di altre sale.
Con l’Unità d’Italia, come detto, il palazzo diventa residenza napoletana di Casa Savoia e, già nel 1861, nel giardino a nord compare la statua raffigurante l’Italia. Più tardi, nel 1888, re Umberto I fece realizzare le otto statue poste nelle nicchie della facciata.
Nel 1919, Palazzo Reale diventa proprietà dello Stato che lo apre al pubblico e, tra il 1922 e il 1923, vi trasferisce la Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III al primo e al secondo piano dell’Ala delle Feste. La Seconda Guerra Mondiale causa alcuni danneggiamenti, poi sistemati negli anni successivi, e anche la caduta della monarchia che determina la dispersione di alcuni arredi. Dal 1995 si presenta nella forma museografica di appartamento storico e di Biblioteca Nazionale.
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Alcune foto sono tratte da:
Wikipedia, da Flickr e da Cultura Campania
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