Storia del Regno di Napoli – Il viceregno
La dominazione spagnola e il baronaggio domato
Nel 1503 gli spagnoli si impossessarono del Regno di Napoli. I continui
tentativi di conquista della Francia furono resi vani dalle vittorie di Consalvo,
dalle campagne contro il papa Paolo IV nel 1556 e infine, a metà seicento, dalla
pronta difesa contro i tentativi di sbarchi nel golfo di Napoli. Il nuovo potere
riuscì subito a domare il baronaggio con forza e audacia. Gli spagnoli trovarono
due partiti nelle terre napoletane: uno era quello aragonese che era piuttosto
borghese o intellettuale, composto da uomini legati alla vecchia dinastia tra i
quali c'era anche Iacopo Sannazaro; questa fazione però perse il suo punto di
riferimento alla morte di Ferdinando il cattolico e scomparve ogni desiderio di
indipendenza. L'altro partito era quello Angioino che per i primi tempi
combatterono ancora a fianco dei francesi; in seguito, però, i suoi membri
fecero pace con gli spagnoli che li utilizzarono per svolgere faccende di
governo o di guerra. L'ultimo scontro con il regno risale alla guerra del
Lautrec del 1528 Dove i baroni si unirono all'esercito francese che stava
assediando Napoli. Alla fine della battaglia alcuni di questi furono uccisi,
mentre altri mandati in esilio in Francia. Le ribellioni dei baroni diventarono
sempre più rare e in questa classe sociale nacque un nuovo sentimento di fedeltà
nei confronti del sovrano portando invece gli altri ceti alla reazione
contraria. Le ribellioni ci furono comunque, come per esempio nel 1547, ma i
baroni napoletani non si ribellarono mai al re, ma soltanto al viceré il cui
potere non veniva riconosciuto. Infatti Carlo D'Angiò nonostante le proteste
diede sempre alla città l'etichetta di "fedelissima" che mostrò questa qualità
anche nel 1707 molti baroni napoletani corsero in aiuto del Regno di Filippo V,
occupato dagli austriaci. Il rapporto con la Spagna significò, inoltre, una
forte intensificazione dei rapporti economici e finanziari con i genovesi,
principali banchieri della monarchia madrilena. La città era diventata da tempo
l'emporio che praticamente monopolizzava il movimento commerciale con il
mezzogiorno, di cui rappresentava di gran lunga il principale accesso. Essa
stessa, per la sua dimensione demografica, era diventata un grande mercato di
consumo e un centro ragguardevole di produzione artigiana, all'interno della
quale prese un forte spicco l'arte della seta. Nella capitale si raccoglievano
pure la ricchezza e il risparmio del sud, che un evoluto sistema bancario
metteva a disposizione del pubblico e del governo.
tentativi di conquista della Francia furono resi vani dalle vittorie di Consalvo,
dalle campagne contro il papa Paolo IV nel 1556 e infine, a metà seicento, dalla
pronta difesa contro i tentativi di sbarchi nel golfo di Napoli. Il nuovo potere
riuscì subito a domare il baronaggio con forza e audacia. Gli spagnoli trovarono
due partiti nelle terre napoletane: uno era quello aragonese che era piuttosto
borghese o intellettuale, composto da uomini legati alla vecchia dinastia tra i
quali c'era anche Iacopo Sannazaro; questa fazione però perse il suo punto di
riferimento alla morte di Ferdinando il cattolico e scomparve ogni desiderio di
indipendenza. L'altro partito era quello Angioino che per i primi tempi
combatterono ancora a fianco dei francesi; in seguito, però, i suoi membri
fecero pace con gli spagnoli che li utilizzarono per svolgere faccende di
governo o di guerra. L'ultimo scontro con il regno risale alla guerra del
Lautrec del 1528 Dove i baroni si unirono all'esercito francese che stava
assediando Napoli. Alla fine della battaglia alcuni di questi furono uccisi,
mentre altri mandati in esilio in Francia. Le ribellioni dei baroni diventarono
sempre più rare e in questa classe sociale nacque un nuovo sentimento di fedeltà
nei confronti del sovrano portando invece gli altri ceti alla reazione
contraria. Le ribellioni ci furono comunque, come per esempio nel 1547, ma i
baroni napoletani non si ribellarono mai al re, ma soltanto al viceré il cui
potere non veniva riconosciuto. Infatti Carlo D'Angiò nonostante le proteste
diede sempre alla città l'etichetta di "fedelissima" che mostrò questa qualità
anche nel 1707 molti baroni napoletani corsero in aiuto del Regno di Filippo V,
occupato dagli austriaci. Il rapporto con la Spagna significò, inoltre, una
forte intensificazione dei rapporti economici e finanziari con i genovesi,
principali banchieri della monarchia madrilena. La città era diventata da tempo
l'emporio che praticamente monopolizzava il movimento commerciale con il
mezzogiorno, di cui rappresentava di gran lunga il principale accesso. Essa
stessa, per la sua dimensione demografica, era diventata un grande mercato di
consumo e un centro ragguardevole di produzione artigiana, all'interno della
quale prese un forte spicco l'arte della seta. Nella capitale si raccoglievano
pure la ricchezza e il risparmio del sud, che un evoluto sistema bancario
metteva a disposizione del pubblico e del governo.
Le classi sociali
I baroni, insieme al clero, erano i proprietari fondiari. I baroni proprietari
non coltivavano direttamente e affidavano il controllo dei campi ad agenti ed
avvocati. Essi vivevano nel lusso per tutto l'anno e ormai si andavano
approssimando alla classe dei patrizi. La loro unica occupazione era l'attività
militare. Professioni come la medicina erano state abbandonate anche se molto
redditizie. L'ozio, il lusso, la voglia di primeggiare e il continuo costruire
di palazzi e regge porto in poche generazioni le famiglie alla rovina, anche se
ormai era una tendenza europea. Mentre i baroni si impoverivano, cresceva la
ricchezza del ceto medio o civile del quale facevano parte avvocati,
appaltatori, banchieri, medici e prestatori di denaro. Nel giro di poco tempo
l'aumentare delle controversie tra nobili fece diventare la presenza degli
avvocati di capitale importanza che mise a rischio l'attività militare. Infatti
dalle prime attività notarili si poteva facilmente accedere alla magistratura ed
agli uffici politici. Questo ceto non aveva rappresentanti politici, ma ciò non
era necessario perché i suoi componenti diventavano ben presto parte della
nobiltà. Questo perché i commercianti riuscivano ad arricchirsi in fretta e a
comprare grandi feudi e, ancor più facilmente, riuscivano ad ottenere titoli
nobiliari tanto che Napoli nel seicento aveva 119 principi, 173 marchesi, 156
duchi e molte centinaia di conti. Il fatto che bastasse possedere almeno un
feudo del regno riempì di titoli anche alcune famiglie genovesi che investivano
i propri soldi a Napoli. La popolazione della città aumentò vertiginosamente
fino ad arrivare a circa 200'000 abitanti nei primi cinquant'anni del XVI secolo
e a superare il mezzo milione verso la metà del '600. La costruzione di nuove
corti e palazzi servì da richiamo, oltre che per nuove famiglie spagnole o
imprenditori genovesi, anche ad artigiani, commercianti, servitori o disoccupati
in cerca di lavoro. Il viceregno tentò invano di porre freno all'esodo dalle
province, ma non vi riuscì. Ben presto la plebe cominciò ad aumentare e a farsi
sentire. Il popolo oltre che a protestare nei confronti del viceré, mormorava
anche contro i nobili che si facevano corrompere per votare nuove tasse che solo
il popolo pagava. La struttura sociale napoletana fu allora caratterizzata dalla
presenza di un'enorme plebe che viveva in condizione di estrema precarietà e
miseria (i "lazzari"), sempre pronte a tumultuare a ogni rialzo dei prezzi e a
ogni incertezza del funzionamento dell'annona cittadina.
non coltivavano direttamente e affidavano il controllo dei campi ad agenti ed
avvocati. Essi vivevano nel lusso per tutto l'anno e ormai si andavano
approssimando alla classe dei patrizi. La loro unica occupazione era l'attività
militare. Professioni come la medicina erano state abbandonate anche se molto
redditizie. L'ozio, il lusso, la voglia di primeggiare e il continuo costruire
di palazzi e regge porto in poche generazioni le famiglie alla rovina, anche se
ormai era una tendenza europea. Mentre i baroni si impoverivano, cresceva la
ricchezza del ceto medio o civile del quale facevano parte avvocati,
appaltatori, banchieri, medici e prestatori di denaro. Nel giro di poco tempo
l'aumentare delle controversie tra nobili fece diventare la presenza degli
avvocati di capitale importanza che mise a rischio l'attività militare. Infatti
dalle prime attività notarili si poteva facilmente accedere alla magistratura ed
agli uffici politici. Questo ceto non aveva rappresentanti politici, ma ciò non
era necessario perché i suoi componenti diventavano ben presto parte della
nobiltà. Questo perché i commercianti riuscivano ad arricchirsi in fretta e a
comprare grandi feudi e, ancor più facilmente, riuscivano ad ottenere titoli
nobiliari tanto che Napoli nel seicento aveva 119 principi, 173 marchesi, 156
duchi e molte centinaia di conti. Il fatto che bastasse possedere almeno un
feudo del regno riempì di titoli anche alcune famiglie genovesi che investivano
i propri soldi a Napoli. La popolazione della città aumentò vertiginosamente
fino ad arrivare a circa 200'000 abitanti nei primi cinquant'anni del XVI secolo
e a superare il mezzo milione verso la metà del '600. La costruzione di nuove
corti e palazzi servì da richiamo, oltre che per nuove famiglie spagnole o
imprenditori genovesi, anche ad artigiani, commercianti, servitori o disoccupati
in cerca di lavoro. Il viceregno tentò invano di porre freno all'esodo dalle
province, ma non vi riuscì. Ben presto la plebe cominciò ad aumentare e a farsi
sentire. Il popolo oltre che a protestare nei confronti del viceré, mormorava
anche contro i nobili che si facevano corrompere per votare nuove tasse che solo
il popolo pagava. La struttura sociale napoletana fu allora caratterizzata dalla
presenza di un'enorme plebe che viveva in condizione di estrema precarietà e
miseria (i "lazzari"), sempre pronte a tumultuare a ogni rialzo dei prezzi e a
ogni incertezza del funzionamento dell'annona cittadina.
L'organizzazione politica
Il sistema politico non fu quasi mai cambiato
durante tutto il dominio spagnolo. Per esempio l'atto del 1507 con il quale
Ferdinando il Cattolico respinse la richiesta di parificazione dei voti del
popolo e dei nobili per l'assemblea degli Eletti di Napoli rimarrà fino alla
riforma di Carlo VIII che incluse un rappresentante del popolo nell'assemblea.
Il lungo governo del viceré Pedro de Toledo (1532-53) fisso i caratteri del
dominio spagnolo a Napoli. Egli provvide tra l'altro ad ampliare la cinta
muraria, che dalla fondazione fino al tempo della Angioini era rimasta più o
meno intorno ai limiti originali, e vi incluse un'ampia zona, al centro della
quale aprì la via che prese il suo nome e che per quattro secoli rappresentò il
cuore della vita cittadina. Quanto all'amministrazione civica, essa era ormai
fissata in una giunta di sei membri, gli "eletti", cinque designati dalla
nobiltà e uno dal popolo. Toledo riuscì a far sì che la designazione di
quest'ultimo dipendesse dal viceré, trasformandolo così in uno strumento per il
controllo regio sulla vita politico-amministrativa della città. Un'altra
iniziativa di Toledo fu la chiusura, nel 1546, delle accademie cittadine, che
proseguivano una tradizione umanistica di letteratura e di filosofia. Egli fu
forse spinto a ciò dalla preoccupazione di un'eventuale penetrazione in Napoli
del protestantesimo, di cui vi era qualche segno ma la cui maggiore
manifestazione non andò oltre il circolo raccoltosi intorno allo spagnolo Juan
de Valdés, mentre la controriforma, a cominciare dall'episcopato di Alfonso
Carafa (1560-65), vi mise salde radici e contrassegnò in maniera duratura la
vita religiosa della città nelle sue manifestazioni devozionali e nella
persistenza del suo legame con Roma. Benché tra gli Eletti ci fosse anche un
rappresentante del popolo era reso nullo dalla delibera secondo la quale il
parere di 4 Eletti su 6 aveva valore esecutivo. La presenza dei comuni in
parlamento fu, fin dall'inizio, esigua, ma andò scemando e i comuni non
infeudati si limitavano a delegare i ministri regi al posto dei propri
rappresentanti. Il parlamento comunque conservava i propri poteri e, infatti,
determinava l'entità e la ripartizione del carico tributario e si riuniva, fino
al 1642, regolarmente ogni due anni. A differenza del parlamento l'assemblea
degli Eletti non veniva convocata dal sovrano, ma si riuniva di sua iniziativa.
Questo le consentì di rimanere per tutto il dominio spagnolo un organo politico
della nobiltà e del baronaggio. Aveva comunque un grande potere, infatti, non si
potevano deliberare nuove tasse senza la sua approvazione. I viceré tentarono di
limitare questo potere denunciando che le riunioni degli Eletti e l'invio di
ambasciatori dovevano essere preventivati dal re, ma non vi riuscirono a causa
dell'intervento del sovrano in persona. Infatti nel 1600 Filippo III ordinò che
i viceré non impedissero l'invio di ambasciatori in Spagna. Il viceré, quindi,
non aveva libertà di azione, ma esercitava solo una parte ridotta del potere
regio: nomina dei funzionari, vendita degli uffici e concessione dei benefici
ecclesiastici, ma non poteva dare l'assenso o il dissenso al trasferimento di
beni feudali. Questo era considerato dai nobili un limite e, a più riprese,
chiesero che fossero concesse al viceré più ampie facoltà e più indipendenza da
Madrid.
durante tutto il dominio spagnolo. Per esempio l'atto del 1507 con il quale
Ferdinando il Cattolico respinse la richiesta di parificazione dei voti del
popolo e dei nobili per l'assemblea degli Eletti di Napoli rimarrà fino alla
riforma di Carlo VIII che incluse un rappresentante del popolo nell'assemblea.
Il lungo governo del viceré Pedro de Toledo (1532-53) fisso i caratteri del
dominio spagnolo a Napoli. Egli provvide tra l'altro ad ampliare la cinta
muraria, che dalla fondazione fino al tempo della Angioini era rimasta più o
meno intorno ai limiti originali, e vi incluse un'ampia zona, al centro della
quale aprì la via che prese il suo nome e che per quattro secoli rappresentò il
cuore della vita cittadina. Quanto all'amministrazione civica, essa era ormai
fissata in una giunta di sei membri, gli "eletti", cinque designati dalla
nobiltà e uno dal popolo. Toledo riuscì a far sì che la designazione di
quest'ultimo dipendesse dal viceré, trasformandolo così in uno strumento per il
controllo regio sulla vita politico-amministrativa della città. Un'altra
iniziativa di Toledo fu la chiusura, nel 1546, delle accademie cittadine, che
proseguivano una tradizione umanistica di letteratura e di filosofia. Egli fu
forse spinto a ciò dalla preoccupazione di un'eventuale penetrazione in Napoli
del protestantesimo, di cui vi era qualche segno ma la cui maggiore
manifestazione non andò oltre il circolo raccoltosi intorno allo spagnolo Juan
de Valdés, mentre la controriforma, a cominciare dall'episcopato di Alfonso
Carafa (1560-65), vi mise salde radici e contrassegnò in maniera duratura la
vita religiosa della città nelle sue manifestazioni devozionali e nella
persistenza del suo legame con Roma. Benché tra gli Eletti ci fosse anche un
rappresentante del popolo era reso nullo dalla delibera secondo la quale il
parere di 4 Eletti su 6 aveva valore esecutivo. La presenza dei comuni in
parlamento fu, fin dall'inizio, esigua, ma andò scemando e i comuni non
infeudati si limitavano a delegare i ministri regi al posto dei propri
rappresentanti. Il parlamento comunque conservava i propri poteri e, infatti,
determinava l'entità e la ripartizione del carico tributario e si riuniva, fino
al 1642, regolarmente ogni due anni. A differenza del parlamento l'assemblea
degli Eletti non veniva convocata dal sovrano, ma si riuniva di sua iniziativa.
Questo le consentì di rimanere per tutto il dominio spagnolo un organo politico
della nobiltà e del baronaggio. Aveva comunque un grande potere, infatti, non si
potevano deliberare nuove tasse senza la sua approvazione. I viceré tentarono di
limitare questo potere denunciando che le riunioni degli Eletti e l'invio di
ambasciatori dovevano essere preventivati dal re, ma non vi riuscirono a causa
dell'intervento del sovrano in persona. Infatti nel 1600 Filippo III ordinò che
i viceré non impedissero l'invio di ambasciatori in Spagna. Il viceré, quindi,
non aveva libertà di azione, ma esercitava solo una parte ridotta del potere
regio: nomina dei funzionari, vendita degli uffici e concessione dei benefici
ecclesiastici, ma non poteva dare l'assenso o il dissenso al trasferimento di
beni feudali. Questo era considerato dai nobili un limite e, a più riprese,
chiesero che fossero concesse al viceré più ampie facoltà e più indipendenza da
Madrid.
Il Mezzogiorno d'Italia e la crisi europea del Seicento
Fino agli ultimi decenni del
Cinquecento la vita sociale italiana segue quella europea; solo durante il nuovo
secolo si andranno ampliando le differenze. La crisi del Sud è una conseguenza
della crisi che investe l'Europa nel secolo XVII, mentre in alcune parti del
continente il periodo di difficoltà fu superato, in altre segna la decadenza.
Tra queste, purtroppo, c'è anche la Spagna. La crisi è segnata, in un primo
momento sia dalla netta spaccatura delle classi sociali, sia dal dominio
incontrastato dell'aristocrazia a danno del popolo e poi, in un secondo momento,
dall'intensificazione della pressione fiscale nel periodo tra il 1636 e il 1647.
Cinquecento la vita sociale italiana segue quella europea; solo durante il nuovo
secolo si andranno ampliando le differenze. La crisi del Sud è una conseguenza
della crisi che investe l'Europa nel secolo XVII, mentre in alcune parti del
continente il periodo di difficoltà fu superato, in altre segna la decadenza.
Tra queste, purtroppo, c'è anche la Spagna. La crisi è segnata, in un primo
momento sia dalla netta spaccatura delle classi sociali, sia dal dominio
incontrastato dell'aristocrazia a danno del popolo e poi, in un secondo momento,
dall'intensificazione della pressione fiscale nel periodo tra il 1636 e il 1647.
L'autonomia napoletana
La diminuzione dell'afflusso di metalli preziosi americani e l'esaurimento delle
risorse finanziarie della Castiglia rimisero in discussione i rapporti tra la
corona e le colonie. In tutta l'Europa la guerra sollecitava un repentino
accentramento del potere così da lasciare più autorità ai rappresentanti di uno
stato nelle province. Un tentativo viene fatto a Napoli dal duca di Olivares tra
il 1620 e 1647, tanto il sovrano stesso gli suggerisce di agire
indipendentemente dalle magistrature locali. Questo però portò alla rottura di
quei principi che potevano garantire la fedeltà al regno e la grande pressione
fiscale rende carente il potere e l'autorità degli organi di governo. Infatti in
quel periodo i quattro viceré che governarono il regno incontrarono grosse
difficoltà nell'esercitare le loro funzioni; essi commisero l'errore di
concentrare tutti gli sforzi nella ricerca di denaro per la guerra e rimasero
impotenti di fronte allo stato di caos ed illegalità nel quale si trovava il
regno. Una parte considerevole della nobiltà, oltre che al clero, si sottrasse
alla mano della giustizia e larghe zone del paese restarono fuori dal controllo
statale. I feudatari di alto rango, aiutati da bande seguaci, approfittarono
della situazione per compiere soprusi sul popolo. I comuni non potevano più
contare sulla protezione del sovrano e spesso i suoi rappresentanti pagavano con
la vita l'opposizione ai baroni. Alla fine gli stessi funzionari regi dovettero
venire a compromesso con i signori per la riscossione delle imposte e la
repressione del contrabbando.
risorse finanziarie della Castiglia rimisero in discussione i rapporti tra la
corona e le colonie. In tutta l'Europa la guerra sollecitava un repentino
accentramento del potere così da lasciare più autorità ai rappresentanti di uno
stato nelle province. Un tentativo viene fatto a Napoli dal duca di Olivares tra
il 1620 e 1647, tanto il sovrano stesso gli suggerisce di agire
indipendentemente dalle magistrature locali. Questo però portò alla rottura di
quei principi che potevano garantire la fedeltà al regno e la grande pressione
fiscale rende carente il potere e l'autorità degli organi di governo. Infatti in
quel periodo i quattro viceré che governarono il regno incontrarono grosse
difficoltà nell'esercitare le loro funzioni; essi commisero l'errore di
concentrare tutti gli sforzi nella ricerca di denaro per la guerra e rimasero
impotenti di fronte allo stato di caos ed illegalità nel quale si trovava il
regno. Una parte considerevole della nobiltà, oltre che al clero, si sottrasse
alla mano della giustizia e larghe zone del paese restarono fuori dal controllo
statale. I feudatari di alto rango, aiutati da bande seguaci, approfittarono
della situazione per compiere soprusi sul popolo. I comuni non potevano più
contare sulla protezione del sovrano e spesso i suoi rappresentanti pagavano con
la vita l'opposizione ai baroni. Alla fine gli stessi funzionari regi dovettero
venire a compromesso con i signori per la riscossione delle imposte e la
repressione del contrabbando.