Storia del Regno di Napoli – La crisi finanziaria

L'aumento del debito pubblico
Nel 1636 lo stato napoletano si
era ampiamente indebitato poiché le entrate coprivano soltanto il 57% delle
spese. Queste ultime erano dovute quasi tutte alla guerra e solo una piccola
parte era destinata all'ordinaria amministrazione. In passato il debito fu
colmato con la vendita di terre e uffici che però finì per ridurre il territorio
su cui lo stato poteva pensare di ricavare profitti. La crisi era anche dovuta
dal fatto che Napoli nel disegno elaborato da Filippo II per l'accentramento del
suo potere, era diventata da elemento essenziale a riserva finanziaria per le
guerre che la Spagna conduceva in Europa. Infatti, nel 1636 Filippo IV ordinò al
viceré di trarre tutti i guadagni possibili dal regno vendendo tutto ciò che era
possibile.
Le 'asistencias'
Ormai le risorse del paese erano quasi azzerate ed
il re fu costretto ad annullare alcune tasse perché non c'era più nessuno in
grado di pagarle e il gruppo di mercanti e banchieri che fino ad allora aveva
fornito i prestiti per il regno, incominciò a resistere alle richieste del
viceré visto che Napoli e la Spagna non offrivano più una garanzia.
In questa situazione già precaria, giungevano dalla Spagna le richieste di
asistencias finanziarie e militari. Nel 1636 giunse l'ordine di procurare da 6
mila a 8 mila soldati da poter mandare in Lombardia e 6 mila quintali di
polvere, grano ed orzo per le truppe. Altre resistenze affiorano durante la
discussione sul servizio di leva: le raccolte di truppe erano delle vere e
proprie razzie di gente dalle province e provocavano normalmente tumulti e
violenze. I soldati erano incatenati fino al momento della partenza e dello
sbarco. Nel 1639 la protesta giungeva anche dal parlamento e lo stesso viceré
riconosceva che la situazione era insostenibile per le province, ma riteneva che
si potesse addossare una maggior pressione fiscale sulla capitale poiché in essa
continuava ad immigrare una grande quantità di gente. Nel 1640 il regno sembro
direttamente toccato dalla guerra poiché si profilava un massiccio attacco
dell'armata turca. Già l'anno precedente si erano verificati attacchi alle coste
meridionali da parte di pirati, sconfitti però dai veneziani che ora non erano
in grado di intervenire. Le difese del regno, impegnate quasi tutte contro i
saraceni, erano senza equipaggiamento e non fu difficile per i turchi
saccheggiare molte città della Puglia e della Calabria. In questo periodo anche
i baroni erano opposti al governo a causa delle solite discussioni sui privilegi
nobiliari e il viceré fu costretto a far fronte alle numerose congiure che si
verificavano in questo periodo. Tuttavia le polemiche erano indirizzate al verso
il metodo politico-finanziario del regno. Il viceregno tentò invano di porre
fine a questa situazione credendo che potesse nascere una sollevazione generale
e i nobili decisero di nominare un ambasciatore da mandare a corte, ma i
contrasti interni e le loro rivalità impedirono la riuscita dell'impresa. Il
viceré decise allora di incarcerare tutti i nobili che avessero partecipato al
tentativo di congiura e per frenare l'agitazione degli aristocratici decise di
chiudere il parlamento che dal 1642 non fu più riunito. In seguito arrivarono
richieste dalla Spagna per fronteggiare la rivolta catalana del 1641 che
prevedevano nove milioni di ducati, oltre 12 mila fanti e 2500 cavalli.
Il monopolio finanziario: Bartolomeo d'Aquino
Quando il regno sembrava ormai in dirittura d'arrivo entrò nella scena politica
e finanziaria un audace uomo d'affari: Bartolomeo d'Aquino. Entrò in rapporti
con la corte quando ormai tutti gli investitori avevano abbandonato ogni
speranza di guadagno e in poco tempo acquistò tutti i rapporti finanziari con lo
stato. Da solo procurò al governo in soli 8 anni, dal 1636 al 1644, circa 16
milioni di ducati che per la maggior parte furono inviati a Milano e in Spagna e
riuscì a saldare il credito per circa due terzi riuscendo a imporre nuove tasse.
Così facendo d'Aquino si trovò possessore di una grande quantità di titoli,
mentre i precedenti investitori vedevano i propri svalutarsi.
Tutte le nuove gabelle furono create sui prodotti che costituivano le basi del
commercio napoletano come la seta, l'olio, la farina e il sale, mentre il
tentativo di aumentare la tassa su tutti i contratti e di imporre la carta
bollata fu respinto dalla nobiltà. Tutte le imposte furono acquistate da
d'Aquino e l'aumento della pressione fiscale provocò una svalutazione della
rendita, che però era la condizione necessaria per incrementare il debito
pubblico, poiché la produzione ristagnava. D'Aquino riuscì ad acquistare per
poco o niente titoli e quote di interessi arretrati che i vecchi creditori non
riuscivano a farsi pagare. L'aumento del carico fiscale inasprì i rapporti tra i
commissari e il popolo poiché i primi ricorrevano a qualsiasi mezzo e violenza
per estorcere le tasse. La supremazia di D'Aquino fu definitivamente sancita da
un'ordinanza del regno che lo indicava come unico destinatario dei ricavi di
tutte le tasse.
Il culmine della crisi
Già alla fine del 1640 il
modello finanziario di D'Aquino registrava qualche intoppo: infatti verso il
1644 dovette rivendere a prezzo minore le gabelle perdendo molti soldi
alimentando polemiche anche in Spagna sul suo monopolio che a Napoli suscitava
le proteste degli altri uomini d'affari. D'Aquino fu obbligato a pagare la somma
persa e non riuscendovi il viceré riuscì a sviare le responsabilità sull'uomo
d'affari quando in realtà il primo colpevole era la Spagna. Durante la
rivoluzione il palazzo di D'Aquino fu incendiato e quando decise di rimborsare
lo stato morì nel 1656 di peste.

2 Replies to “Storia del Regno di Napoli (1503-1734): La crisi finanziaria”

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